«Io mi ricordo (A m'arcord). Lo so, lo so, lo so, che un uomo a cinquant'anni ha sempre le mani pulite e io me le lavo due o tre volte al giorno, ma è soltanto se mi vedo le mani sporche che io mi ricordo di quando ero ragazzo».
Proprio da questa poesia di Tonino Guerra, il cui testo originale è in dialetto romagnolo, nasce uno dei “fellinismi” più noti, che hanno indelebilmente arricchito la lingua italiana, Amarcord: “s. m. [voce romagnola., propriamente «io mi ricordo», dal titolo dell'omonimo film del 1973 di F. Fellini]. – Ricordo, rievocazione nostalgica del passato: quando ci siamo rivisti abbiamo fatto un lungo amarcord”.
È proprio contraendo l’espressione dialettale A m'arcord, che Fellini da nome al proprio film, la cui sceneggiatura vede la collaborazione dello stesso Tonino Guerra. Un titolo il cui significato ci spiega l’intero contenuto della pellicola: un’antologia di momenti, di luoghi e di personaggi caricaturali, che vivacemente abitano il ricordo nostalgico dell’infanzia del regista. Ci troviamo nel più che fascista borgo di Rimini, all’inizio delle primavera di un anno tra il 1933 e il 1937. Titta Biondi (Bruno Zanin) vaga per l’adolescenza tra scuola e professori in trance oratoria, chiesa, parate fasciste e il cinema Fulgor; sognando l’attraente parrucchiera detta “Gradisca” (Magali Noël) e sfogando le frustrazioni in bricconate di gruppo.
Dal ricordo di Rimini emerge la figura – anch’essa adolescente – della provincia italiana, che mostra un campionario umano a dir poco variopinto eppure organico, nel modo di essere al tempo stesso beffardo e ignorante, fertile suo malgrado all’ascesa fascista. Tuttavia, i film di Fellini sono universali e collocarli entro precise coordinate storiche o geografiche è un esercizio utile e inutile. Quello a cui ci mette di fronte la pellicola è un mondo universale e allo stesso tempo fantastico, in quanto vive di atmosfere e personaggi talmente vividi, che possono essere solo frutto della rielaborazione di un ricordo. Quello di Fellini è un realismo dell’anima, in cui la vera realtà oggettiva corrisponde a quella soggettiva. La regia è il modo in cui il regista propone la sua visione della realtà. Una visione che, nel caso di Fellini, restituisce al pubblico una realtà più vera del reale, e a nessuno importa quanto sia storicamente attendibile. I luoghi e le giornate vivono in una minuziosità di dettagli surreali, che fondono il mondo del ricordo a quello del sogno. Gli episodi che ci vengono raccontati non sono più figli della realtà, ma della memoria di chi li racconta: i colori sfumano, le dimensioni di luoghi e persone cambiano o avvengono fatti mai verificatisi.
Finito il film è impossibile non provare la sensazione di aver vissuto in prima persona tutti gli eventi folklorici della cittadina, così come di conoscere quella varietà umana di personaggi che ci viene presentata: la provocante parrucchiera Gradisca, la sciocca Volpina, una tabaccaia mastodontica, un ampolloso avvocato dalla facile retorica, l’instabile zio Teo, un emiro dalle cento mogli, il matto Giudizio e un motociclista esibizionista. Tutti i personaggi dai tratti grotteschi e bizzarri, vengono rappresentati proprio come, probabilmente, furono percepiti dal Fellini adolescente o come li ricorda ormai da adulto; a tutti i suoi caratteri il regista riesce a dare una rappresentazione visiva della loro personalità, come se fossero appena usciti da una vignetta.
Il paese dove il regista è cresciuto, diventa un luogo che appartiene a tutti, di più, diventa un'età che abbiamo attraversato e dalla quale ci chiediamo ancora se siamo riusciti a separarci.