Arriva al Locomotiv uno tra i talenti italiani più apprezzati ed invidiatici dal resto del mondo: Cristiano Crisci, in arte Clap! Clap! (e prima ancora Digi G’Alessio). Classe ’81, fiorentino, ha alle spalle una lunga ricerca musicale che lo consegna alla musica Rap negli anni ’90, per poi mettergli un sassofono in mano e iniziare a muoverlo tra i mondi jazz e punk con il Trio Cane.
Già da questi pochi indizi si intuisce l’inevitabile difficoltà che si riscontra nel catalogare la produzione di Clap! Clap! in un genere o filone musicale definito: world music, black music, con richiami anche all’hip hop o al footwork di Chicago, il tutto condito costantemente dall’autenticità dei campionamenti e da uno stile molto personale ma inconfondibile.
«In realtà, i miei lavori sembrano africani, ma i suoni scelti arrivano da tutto il mondo. È stata la mia interpretazione a renderli così. Quando la gente non capisce da dove arrivano, allora sono riuscito a fare quello che avevo in mente.».
Da solista colleziona numerose produzioni discografiche sotto il nome di Digi G’Alessio (già nell’EP del 2013 Ivory prodotto con questo nome sono evidentissime le radici e le intenzioni di tutto ciò che confluirà poi sotto il nuovo alter ego); nel 2013 produce anche come Clap! Clap! l’EP Gwidingwi Dema, ma è nel 2014 che approda nel panorama internazionale firmando per Black Acre il suo disco d’esordio Tayi Bebba, accolto dalla critica in maniera entusiasta.
L’album, nel quale l’artista si avvale delle registrazioni raccolte sul campo tra tribù siberiane, mongole e in Africa occidentale, viene realizzato come un’ipotetica colonna sonora di un viaggio su un’isola deserta.
Flauti, barriti, bassi, casse pesanti e rullanti con riverbero, un’intensità incredibile che viene mantenuta dall’inizio alla fine quasi senza sosta. Percussioni africane ed influenze latine, e ancora l’utilizzo dello staccato negano la possibilità di restare fermi.
Dal successo di Tayi Bebba è iniziato un percorso che ha portato Clap! Clap! a importanti traguardi come la collaborazione con Paul Simon (che lo ha voluto come produttore di quattro brani dell’album Stranger to Stranger), o la partecipazione alla Boiler Room di Londra.
A distanza di tre anni esce A Thousand Skies. Questa volta ai campionamenti strumentali suonati in studio (per i quali hanno collaborato Bongeziwe Mabandla, John Wizards e la band svizzera OY) si affiancano per la prima volta anche sonorità provenienti dalla tradizione del Sud Italia.
Nel frattempo, tra il primo ed il secondo disco Cristiano diventa padre e torna nella sua Toscana, dopo numerosi viaggi in giro per il mondo. Queste esperienze personali si traducono per noi in un concept che ci mostra il secondo disco attraverso gli occhi di una giovane ragazza in un viaggio cosmico tra le costellazioni. «Ho scritto questa favola come se fosse un benvenuto al mondo per mia figlia. L’ho pensata come un viaggio nel cosmo.» afferma Crisci in un’intervista rilasciata per Internazionale.
Il raffronto tra i due dischi disegna ai nostri occhi piuttosto chiaramente l’evoluzione maturata dall’artista in questi anni: nonostante il “tocco” sia sempre quello, (anche ad un primo ascolto si nota l’impronta inequivocabile dell’artista), A Thousand Skies sembra contenere delle sonorità ancora più sofisticate e ricercate, che puntino non solo a far ballare l’ascoltatore, ma lo impegnino anche in un ascolto raffinato, capace di riportare in superficie le influenze jazzistiche e melodiche altrimenti difficilmente apprezzabili. In generale l’album risulta più delicato del precedente, seppur ancora molto dinamico, capace di rendere egregiamente le suggestioni oniriche proposte dai brani.
Veniamo al live: oltre al producer, sono presenti sul palco un basso e due batterie, che per tutto il concerto esalteranno le pulsazioni tribali (suonando all’unisono o incastrandosi ritmicamente l’una con l’altra), oltre a rendere il suono molto più voluminoso, in grado di scuotere gli spettatori. Un plauso va sicuramente alla capacità con la quale si è riuscita a rendere strumentalmente una musica così legata all’elettronica e alle possibilità (e i limiti) che essa comporta.
Quando Clap! Clap! sale sul palco, accompagnato dai musicisti, registriamo un ritardo di un’ora circa rispetto alla programmazione. Dopo cinque o sei secondi, ce lo siamo scordati e stiamo tutti ballando, sotto e sopra il palco.
Le batterie fanno il loro dovere, solidificando il suono e rigettandolo verso il pubblico; il basso incalza; le mani del dj continuano a muoversi tra i piatti, la strumentazione ed il computer. Se anche fosse necessario, basterebbe guardarlo dimenarsi dietro alla consolle per ritrovare la carica. Sotto il palco non si smette di saltare.
Per un’ora o poco meno la situazione sarà invariata: i bassi continuano a far vibrare il Locomotiv e lo spettacolo a cui stiamo assistendo dilata e accorcia il tempo a proprio piacimento, così che dopo non molto ci accorgiamo di essere (già) arrivati alla fine. Sudati, stanchi ma anche molto soddisfatti riprendiamo aria.
Da segnalare anche il dj set finale a cura di Go Dugong.